The robot “social distance” dance which humans cannot copy.
Pechino, piano terra di uno shopping mall della centrale Wangfujing, pochi mesi prima dello scoppio del nuovo coronavirus.
Famiglie con bimbi curiosi stanno lì come ipnotizzati a guardare la danza dei robottini con il logo della danese Ecco, multinazionale delle calzature molto nota in Cina.
I piccoli robot danzano in fila, a distanza precisa l’uno dall’altro. Cantano, piroettano. Si muovono sincronizzati mantenendo le distanze.
Chiudono il balletto con un cortese inchino. Mentre li riprendevo con il telefonino non potevo – nessuno poteva, in quei giorni così vicini eppure sembra già roba di un secolo fa – immaginare che pochi mesi dopo mantenere le distanze sarebbe stata la vera grande sfida globale per tornare a vivere dopo (e nonostante) la pandemìa da Covid-19.
Social distancing. L’espressione è diventata il monito più difficile da applicare e da digerire in questa pandemia: nelle scuole, sui mezzi pubblici, nei ristoranti. Due metri, quattro metri, la distanza di sicurezza perfetta è ignota.
Nemmeno in Cina dove tutti sono abituati ad obbedire, nemmeno nelle società più evolute fondate sulla libera determinazione, noi esseri umani potremo mai muoverci a comando come questi magnifici, perfetti robottini, piccoli prodigi dell’intelligenza artificiale frutto dell’umana imperfezione.