Josè Chamizo de La Rubia, 58 anni, di Cadice, prete. Il Parlamento nel 1996 lo ha nominato Defensor del Pueblo Andaluz. Una figura nota della cultura spagnola, che ha messo radici anche in America Latina. Al di sopra dei poteri che l’hanno nominato, cane da guardia dei diritti degli ultimi, inclusi gli immigrati. Potrebbe funzionare anche in Italia un Defensor del pueblo? Come mai gli spagnoli non hanno esportato in Italia questa figura? Dite la vostra a Mare Nostrum.
Intanto vi racconto come quando e perchè ho incontrato Josè Chamizo. La storia.
Siviglia, luglio 2001, è di scena la Cumbre, cioè il consiglio dei capi
di stato e di governo dell’Unione europea sotto il semestre di
presidenza spagnola. Caldo torrido, a pochi chilometri dalla struttura
in cui si discute il piano europeo dell’immigrazione, da giorni circa
500 immigrati sono asserragliati nella palestra dell’Università Pedro
de Olavide. Encierro, una pratica fino a quel momento riservata alle
chiese. Encierro di protesta contro il Governo spagnolo che non
permette loro di rimanere legalmente. Una strana vicinanza, tra cumbre
ed encierro. Toccò a Josè Chamizo, Defensor del pueblo andaluz mediare
tra quei clandestini arrivati dall’Africa per raccogliere fragole o
zappare la terra e le autorità, prima fra tutte il rettore
dell’università che reclamava i suoi spazi. L’abbiamo incontrato nel
suo studio, Josè Chamizo, prete dall’aspetto gitano, la barba fluente,
il gilet nero sulla camicia bianca. "Solo questione di tempo" disse "e
poi questo finirà. Senza una legge questi ragazzi non possono essere
mandati a casa". Stavano assiepati nella palestra, guardavano la tv, si
annoiavano. Coperti di mosche, malvestiti. Raccontavano le loro storie,
tutte uguali, in uno spagnolo approssimativo. Chamizo ebbe ragione.
Qualche giorno dopo, l’encierro era finito. Lasciarono la palestra.
Tornarono in clandestinità. Qualche mese dopo la Spagna varò la sua
prima sanatoria.